Le sue opere sono esposte nei principali musei d’arte, a dimostrazione della loro straordinaria potenza espressiva; alcune delle sue grafiche sono diventate delle vere e proprie icone della cultura pop contemporanea, entrando nell’immaginario collettivo e plasmandolo sin dalle sue fondamenta; il brand da lui fondato, OBEY, è diventato sinonimo di attivismo politico, sociale e ambientale, affermandosi come uno strumento efficacissimo nel veicolare i suoi messaggi.
La persona che ha fatto tutto questo ha un nome, Frank Shepard Fairey, e oggi proveremo a raccontare la sua vita in cinque grafiche. Compito talmente difficile che alla fine le grafiche saranno sette, ma non importa, perché l’arte di Shepard è talmente vasta che non basterebbero 100 grafiche per raccontarlo a dovere. In ogni caso, immergiamoci, ora, in questo viaggio nella creatività di uno degli artisti più influenti degli ultimi decenni.
È l’estate del 1989, e Shepard Fairey sta frequentando la Rhode Island School of Design. L’anno prima ha terminato il suo percorso alla Idyllwild Arts Academy, e il suo talento artistico si sta formando anche da un punto di vista più accademico. Insomma, Shepard non proviene da una famiglia particolarmente povera, e non è nemmeno una persona dominata dalla necessità di rivalersi sulle ingiustizie del mondo.
“Andre the Giant Has a Posse”, la sua grafica più iconica, non nasce quindi in un contesto particolarmente impegnativo, ma durante una sessione di ripetizioni a un suo compagno di studi: Shepard vede una foto del wrestler André the Giant su un giornale, e decide di riprodurla con lo stencil, creando uno sticker destinato a entrare nella storia dell’arte contemporanea.
Uno sticker a cui, paradossalmente, nemmeno lui stesso ha mai attribuito alcun significato preciso. Al contrario, stando a quanto riportato sul sito Obey Giant, “lo sticker non ha alcun significato, ma esiste solo per suscitare reazioni, essere contemplato e generare significati”.
Il trittico “Hope”, “Sold” e Forward” è una nostra invenzione, perché Shepard non lo ha e non lo considererà mai tale.
Eppure, è interessante notare come queste tre opere politiche siano riuscite a trasmettere con straordinaria efficacia e semplicità messaggi estremamente complessi, pur essendo nate in tre contesti diversissimi: con “Hope”, Shepard ha infatti voluto sottolineare il suo supporto alla candidatura di Barack Obama, visto come una fonte di rinnovata speranza per gli Stati Uniti, in particolare dopo la burrascosa presidenza di George W. Bush; con “Sold”, invece, Shepard ha voluto porre l’attenzione sulla corruzione politica, andando a raffigurare con lo stesso stile di “Hope” l’immaginario politico Honest Gil Fulbright; con “Forward”, infine, Shepard ha rinnovato la sua fiducia nei democratici statunitensi, individuando in Kamala Harris il motore propulsivo dello spirito americano, costantemente proiettato al futuro.
È il 2014, e a Johannesburg, nel quartiere di Braamfontein, compare un gigantesco murales raffigurante proprio Nelson Mandela. L’ambasciatore americano in Sudafrica dice che si tratta di un enorme punto esclamativo posto nel cuore di una delle capitali della nazione africana, ma c’è chi rimane un po’ perplesso: cosa significa “The Purple Shall Govern”, e perché tutta l’opera è caratterizzata dal ricorrente utilizzo del colore viola?
Si tratta di una citazione precisa e, paradossalmente, non si riferisce all’elezione di Mandela, ma a un evento anteriore: il 2 settembre del 1989, infatti, la polizia aveva deciso di disperdere un gruppo di manifestanti pro-Mandela utilizzando un getto d’acqua colorato di viola, in modo da rendere più semplice la loro identificazione e incarcerazione. Quella protesta per la democrazia, quindi, è passata alla storia con il nome di “Purple Rain protest”.
Donald Trump, un ricchissimo impreditore che ha sempre detto di non voler entrare in politica, è appena stato eletto 45esimo presidente della storia degli Stati Uniti. È un momento straordinariamente divisivo, che non lascia indifferente Shepard: fedele ai suoi ideali, nel 2017 l’artista di Charleston decide di lanciare un’opera destinata a entrare nell’immaginario collettivo.
L’opera si chiama “We the People”, e raffigura tre ragazze: una di origine arabe, una di origini latinoamericane, e un’afroamericana. Tutte e tre contraddistinte da colori che si rifanno chiaramente alla bandiera statunitense, a dimostrazione che il senso di appartenenza a una nazione è qualcosa che va oltre all’aspetto fisico.
Le tre ragazze, inoltre, sono accompagnate da tre claim diversi, ma ugualmente potenti: “Are Greater than Fear”, “Defend Dignifity”, “Protect Each Other”.
Conformarsi a uno standard non è mai stata roba da Shepard Fairey. Per questo, la famosissima frase “Make Love Not War” è diventata, per l’artista Shepard, “Make Art Not War”, mantenendo la costante anti-bellica ma cambiando l’alternativa alla guerra, passata dall’essere l’amore all’essere l’arte (che, per certi versi, può essere vista come una forma di amore verso il prossimo).
La prima opera in cui troviamo questa idea è difficile da collocare nel tempo: si sa solo che è stata realizzata da Shepard fra il 2003 e il 2011, quando una parte della US Army era impegnata in Iraq. Si conoscono, invece, le referenze di Shepard, che venne ispirato dai poster che negli Sessanta inneggiavano alla fine della sanguinosa guerra in Vietnam.
La seconda, invece, è stata realizzata nel 2014, con lo stesso messaggio e gli stessi colori, ma senza un viso femminile al centro: al suo posto, una rosa incatenata dal significato criptico, difficile da cogliere. Forse, addirittura senza significato. Perché quello, come successo con Andre The Giant, dobbiamo trovarlo noi.
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